In quel posto non suo

Gli spifferi delle finestre perennemente aperte per cacciare gli odori del fumo, del cibo, delle candele, delle canne, della carne, del sonno, del cane.

Silenzio. La tristezza di essere da sola in un posto non suo. La vergogna di ogni minimo rumore e di farsi scoprire là da qualcuno. Come se si fosse intrufolata senza permesso nella proprietà di qualcun altro.

La verità è che era stata lasciata là e che non si ricordava o non sapeva o non voleva tornare  a casa. O era stanca di andarsene sapendo che sarebbe dovuta tornare là, volente o nolente.

Le luci gialle e ferme delle lampade le davano un senso di apparente tranquillità che la incatenavano in quel posto non suo. Forse ci era rimasta per convincere sé stessa e tutti gli altri che quello era il suo posto, che era giusto che lei stesse lì, proprio lì, in quel momento e per quel tempo.

Non ci credeva neanche lei a questo pensiero, ma separare le gambe dal loro intreccio e prendere lo slancio e la decisione di andarsene erano pensieri ben più complicati di quello di rimanere là.

Qualcuno l’avrebbe trovata e lei avrebbe semplicemente detto: ” Sono sempre stata qui!”, come se non dipendesse da lei l’andar via.

I respiri erano sempre più silenziosi man mano che il tempo passava e lei, lacrime agli occhi e buco in pancia, pregava che nessuno la trovasse fino a domani, finché non potesse andar via senza ferire nessuno. Finché non sarebbe stata costretta ad andare via così come era costretta a rimanere.